Il film Emma., l’adattamento della regista Autumn De Wilde uscito lo scorso marzo, ha un impatto visivo eclatante: in ciascuna inquadratura, ogni singolo elemento che possa raccontare visivamente l’ambientazione storica e sociale nonché le dinamiche tra i personaggi viene sfruttato con accuratezza maniacale, così che ogni fotogramma è una vera scorpacciata narrativa per lo sguardo. Questa è anche la ragione per cui, più che mai, è necessario guardare questo film più volte per far emergere da questo tripudio di forme e colori ora uno ora l’altro dei dettagli disseminati ovunque.
Ho avuto il piacere di scambiare diverse conversazioni virtuali con lettrici e lettori su questo nuovo film, soprattutto in occasione della recensione a più voci pubblicata sul sito di Jane Austen Society of Itay (JASIT). Ed ho notato che c’è un dettaglio in particolare che ricorre nelle note degli spettatori, generando diverse ipotesi sul suo significato. Si tratta delle giovani ospiti della scuola di Mrs Goddard che se ne vanno in giro per la campagna di Highbury indossando degli sgargianti mantelli rossi, costellando tutto il film con le loro vivaci apparizioni di gruppo.
Il pubblico moderno le ha subito associate alle Ancelle del romanzo distopico Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, e in particolare alla serie tv che ne è stata tratta, dove le donne destinate da un governo teocratico totalitario a scopi riproduttivi sono obbligate ad indossare un mantello rosso e un cappello bianco. L’interpretazione data a queste giovani in mantelli rossi è, dunque, assai inquietante: si tratterebbe, in definitiva, del fantasma dell’eterna, dura discriminazione delle donne che si aggira come monito per tutto il film.
La spiegazione reale è, invece, più semplice e lieta anche se, per un pubblico moderno, risulta più difficile da cogliere: l’ha spiegata la stessa regista e deriva dalla fedelissima ricostruzione storica da lei voluta per il film.
Con il tè delle cinque di oggi, dunque, vi porto a vedere da vicino i mantelli rossi delle fanciulle di Mrs Goddard del film Emma.: lo faremo tuffandoci nelle illustrazioni di scene di vita quotidiana in epoca Regency a cui la costumista Alexandra Byrne e la regista Autumn De Wilde si sono ispirate per ricostruire con la massima accuratezza l’ambiente campagnolo dell’epoca di Jane Austen.
(anche se è lecito pensare che entrambe fossero ben coscienti dell’inevitabile associazione che gli spettatori avrebbero fatto con le Ancelle di Margaret Atwood…)
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Quando Jane Austen marciò per il diritto di voto alle donne
Nell’eterno, acceso dibattito su Jane Austen e il femminismo, pochi ricordano un fatto di primaria importanza per verificare l’accoglienza di questa autrice da parte delle donne che scelsero di organizzarsi in un movimento politico per l’ottenimento del diritto di voto. Pochi, infatti, sanno che Jane Austen partecipò alla grande marcia di Londra delle sostenitrici del suffragio femminile il 13 giugno del 1908. Ovviamente, non di persona ma come una delle donne eroiche del passato a cui le donne del tempo si ispiravano per le loro lotte di emancipazione dagli schemi antichi e ormai troppo inadeguati della società patriarcale in cui vivevano, a cominciare da quella per l’ottenimento del diritto di voto, il suffragio femminile appunto (e attraverso di esso, più in generale, il diritto di essere considerate persone, esseri senzienti e cittadine con lo stesso valore e le stesse opportunità degli uomini).
La marcia di protesta di quel giorno è rimasta scolpita nella storia mondiale come una delle pietre miliari della lunga lotta per i diritti umani sul nostro pianeta. E Jane Austen vi prese parte, insieme ad altre grandi madri della letteratura inglese, sfidando la temuta repressione dei poliziotti e della società patriarcale dall’alto di uno splendido stendardo di seta disegnato e ricamato con il suo nome dalle mani devote e grate delle militanti per il suffragio.
In questo 8 marzo 2018, a quasi 110 anni da quell’evento e a poco più di 200 dalla morte di Jane Austen, vi racconto questa storia di donne, diritti civili e letteratura offrendovi un tè forte e intenso – come Jane e le sue eroine, e come le donne che si riconobbero nei suoi scritti e marciarono quel giorno innalzandola a nume tutelare della lotta per il riconoscimento della dignità umana delle donne.
Nessuna di noi si aspetta di navigare in acque tranquille tutti i giorni – Jane Austen dixit
Una delle qualità che più mi affascina nella scrittura di Jane Austen è la sua arte di essere esplicita senza esserlo affatto, o meglio, di colpire il bersaglio in una maniera perfetta e disinvoltamente… obliqua. Una delle sue più grandi, appassionate ammiratrici – e come lei, lettrice accanita e scrittrice sopraffina – ovvero, Virginia Woolf, ha espresso questa straordinaria arte in una delle sue folgoranti descrizioni, asserendo che Jane Austen «sa descrivere una notte bellissima senza nominare una volta la luna» (Il lettore comune, 1925).
Dunque, non mi sentirò troppo inopportuna nell’accostare l’aggettivo esplicito a Jane Austen – per di più in relazione ad un argomento troppo spesso ritenuto dal pregiudizio dominante quanto di più lontano dalle tematiche austeniane, cioè la condizione femminile.
Persuasione, tra i romanzi maggiori, è forse il più esplicito sulla condizione femminile.
Nelle opere, Jane Austen racconta la propria realtà in modo diretto ma obliquo, appunto, attraverso le situazioni o le dichiarazioni delle sue eroine. Ad esempio, nel primo caso: l’improvvisa povertà in cui vengono gettate le Dashwood di Ragione e Sentimento alla morte del capofamiglia perché, in quanto donne, non possono ereditare; l’ossessione di Mrs Bennet per il matrimonio delle sue cinque figlie senza dote, in Orgoglio e Pregiudizio; e ancora, la resa di Charlotte Lucas per sfuggire ad un destino di zitella e quindi di sicura povertà. Nel secondo caso: dai tanti, importanti “no” che le protagoniste pronunciano contro le imposizioni della cultura maschile dominante, alle frasi fulminanti che sono vere dichiarazioni d’intenti individuali (una su tutte, e tra le mie preferite, la famosa frase dell’ardimentosa Lizzy Bennet: «In me c’è un’ostinazione che non sopporterà mai di essere intimorita dalla volontà degli altri. Il mio coraggio cresce sempre, a ogni tentativo di intimidirmi»).
Tuttavia, in Persuasione, ultimo romanzo, iniziato nell’estate che precede il suo quarantesimo compleanno e concluso esattamente un anno prima di morire, l’autrice sceglie di essere esplicita e di parlare più apertamente. La prova inconfutabile, e sua apoteosi, è il dialogo sulla questione di genere incastonato in quel gran capolavoro che è il penultimo capitolo dove, come in un dialogo filosofico, Jane Austen mette in scena la condizione femminile, il rapporto tra i sessi e l’auspicio di un’evoluzione all’insegna del rispetto e della collaborazione reciproci. Ma non è l’unico dialogo esplicito su questo tema nel romanzo.
A questo tè delle cinque, che anticipa di poche settimane l’avvio del prossimo e ultimo Bicentenario, è invitata una figura femminile che spicca nel microcosmo di Persuasione come attiva pioniera di un nuovo assetto sociale e, per questo, modello di ispirazione per la protagonista: Mrs. Croft, moglie dell’Ammiraglio Croft e sorella del Cap. Wentworth, che all’inizio della vicenda si rende protagonista di un dialogo che sembra annunciare i temi di quello dell’epilogo.
Il salotto di Mrs. Collins. Ovvero: la stanza tutta per sé di Charlotte Lucas
Le strade di Jane Austen e Virginia Woolf sono assai più intrecciate di quanto non sembri ad una prima lettura dei testi in cui la seconda riflette sulla prima. Che la grande scrittrice del Novecento abbia ragionato più volte, sempre in modo originale ed illuminante, sulla geniale scrittrice del secolo precedente, è testimoniato da due articoli, Jane Austen fa i suoi esercizi, recensione di Amore e Amicizia pubblicata su The New Statesman, 15 luglio 1922, e Jane Austen, apparso su Il lettore comune (The common reader) nel 1923, e dal fondamentale (mai abbastanza letto, e raccomandato, e lodato) saggio A room of one’s own (Una stanza tutta per sé), dove Jane Austen viene nominata 25 volte e sempre in funzione di perno di un’analisi, pragmatica e rivelatrice, della letteratura e della realtà.
I giudizi di Virginia Woolf sulla “più perfetta” tra le scrittrici sono sparsi qua e là con l’entusiasmo dell’ammiratrice, la lucidità della pensatrice, la dialettica della scrittrice, e spaziano da Lady Susan a Persuasione, passando per i Watson.
Raramente, forse addirittura mai, ci si rende conto che è possibile ripercorrere a ritroso questo percorso ed approdare di nuovo alle opere di Jane Austen, per esplorarle alla ricerca di elementi concreti e precisi (brani, dialoghi, personaggi, ecc.) che hanno ispirato quella che ritengo la creazione più geniale e completa di Virginia Woolf, vera e propria Teoria del Tutto antropologica: Una stanza tutta per sé (A room of one’s own).
Io ho almeno due prove inconfutabili di questa ispirazione diretta. Ed è la prima che vorrei condividere con voi, oggi, in questo tè delle cinque che ci porta nel Kent, la contea del destino…
(Della seconda prova, ho già parlato qualche tempo fa ma avremo modo di riprenderla, molto presto)
Tutto il privilegio che reclamo. Ovvero: Jane Austen e il Dialogo sulla Differenza di Genere
Riprendo in questo articolo una riflessione che ho presentato lo scorso 14 febbraio 2015 all’incontro dedicato a Persuasione nell’ambito del Jane Austen Book Club di Biblioteca Salaborsa e Jane Austen Society of Italy, a Bologna.
Manca poco all’8 marzo, Giornata Internazionale delle Donne (per carità, NON chiamatela Festa della donna!), e mi concedo un lungo tè delle cinque su Jane Austen e la sua lungimirante e acuta capacità di osservazione dell’animo umano e delle sue manifestazioni sociali, in particolare sui rapporti tra i sessi e la condizione femminile.
Così lungimirante da essere più avanti, assai più avanti di noi che abbiamo ancora bisogno di un 8 marzo per riflettere sul ruolo e il destino delle donne nella società patriarcale moderna.
Dicono di lei che nei suoi romanzi pensi solo al matrimonio e le sue fanciulle siano tutte un esempio di muliebri virtù tradizionaliste, e che per questo sia profondamente antifemminista. (È evidente che chi sostiene ciò non ha mai letto una sola parola delle tante, bellissime, scritte dalla graffiante penna della zitella illetterata…)
Per contro, dicono di lei che le sue eroine arrivino, sì, al matrimonio ma alle proprie condizioni in piena coscienza della propria dignità umana, e che per questo sia profondamente proto-femminista.
Io dico di lei che tutto quanto c’è da sapere in merito alla questione del femminismo in Jane Austen sia da cercare nell’unico posto possibile, cioè nelle parole che lei stessa ha scritto: le sue opere e le sue lettere. Ed è in un suo romanzo che oggi troverò molte risposte…
In un’epoca, la sua, in cui i ruoli sociali dell’uomo e della donna erano definiti da schemi intoccabili e a compartimenti stagni, e contrapposti, ben più rigidi di quanto non lo siano ancora oggi, ecco una donna antitetica al modello femminile predefinito e approvato, ultraquarantenne, nubile, di classe media, meno che benestante, per di più scrittrice (anche se anonima), che non teme di lasciare le briglie sciolte alla sua intelligenza e alla sua sensibilità e compone un dialogo che è meglio di qualunque trattato di sociologia, antropologia, psicologia e storia sui rapporti tra uomini e donne e sulla differenza di genere.
Accade in Persuasion (Persuasione), l’ultimo romanzo scritto (1816) e pubblicato (postumo, nel dicembre 1817) che, per lo stile ed i contenuti, mi permetto di considerare il testamento spirituale e letterario di Jane Austen, anche se del tutto involontario.
Per la precisione, accade al capitolo XXIII, un vero capolavoro nel capolavoro, per l’abilissima sceneggiatura, la prosa asciutta e perfetta che accompagna con sorprendente poesia lo scioglimento dell’intreccio, la caratterizzazione dei personaggi e alcune riflessioni sui massimi sistemi sociali.
A pensarci bene, un lungo dialogo sulle differenze psicologiche e sociali tra uomini e donne non sembra adatto ad un romanzo, tanto meno nel bel mezzo dello scioglimento dell’intreccio, quando noi, col fiato sospeso ad ogni sillaba, già pregustiamo il lieto fine… Affidato ad altre penne (come le tante che affollavano la letteratura dell’epoca), questo dialogo sarebbe diventato una tirata noiosa e pedante, aliena a tutto il resto, mentre qui è una scena tra le più emozionanti e poetiche che sia dato di leggere.
…Che inizia proprio come una conversazione qualunque, di quelle che io stessa potrei fare con un amico, su una questione di cuore e sul diverso comportamento degli uomini e delle donne nell’affrontarla.