Marianne Dashwood was born to an extraordinary fate.
(Marianne Dashwood era nata con un destino straordinario)
Quanti pensieri contrastanti, mai risolti e sempre irrisolvibili, suscita il personaggio di Marianne!
(Sì, non è una novità. Forse, è da due secoli che ci scervelliamo tutti, ammiratori ed esperti, su di lei, che pure è così trasparente)
Non so più tenere il conto delle riletture di Sense and Sensibility (Ragione e Sentimento): eppure, dopo tutti questi anni, non so ancora decidermi. O meglio: non riesco a rappacificarmi con la sensazione di dispiacere che provo immancabilmente, puntuale e fastidiosa come un acciacco meteoropatico, quando leggo l’ultimo capitolo.
Ecco, adesso lo dico chiaramente: ogni volta, chiudo il libro e sul momento penso che no, non mi piace affatto il modo in cui la vita si “risolve” per la giovanissima, intrepida, palpitante Marianne! E sì, hanno ragione tutti coloro che sostengono che non esista alcun lieto fine per lei, che lei sia la vittima sacrificale dell’intera opera!
Ma poi, immancabilmente, finisco sempre col credere di sapere perché zia Jane abbia voluto chiudere in quel modo: il raggio di sole, la brezza primaverile, il ruscello gorgogliante, prima o poi trovano un ostacolo che li ferma, li contiene, li instrada. Questa è la vita.
La società in cui vive richiede che Marianne l’Indomita diventi Marianne la Domata. O quasi…
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